“Ettore è pronta la pasta”. Ogni giorno alle 13 in punto sentivo i passi del giovane Ettore rimbombare sopra la mia testa, mentre la signora Maria faceva scivolare lo scolapasta nel lavandino. Lo scricchiolio fastidioso della sedia segnava l’inizio del pasto e da lì in poi il silenzio. Il bambino doveva spazzolare il piatto in pochi secondi, perché i suoi salti danzanti riprendevano quasi subito: prima nell’angolo a destra, poi fino all’estremità opposta, in un continuo girotondo di risate. Mi chiedevo spesso quale pietanza avesse servito in tavola la cara Maria: un buon sugo preparato con i pomodori dell’orto? O magari una minestra di lenticchie per riscaldarsi dal vento freddo che in gennaio spirava per i vicoletti? Così la mia mente incominciava a viaggiare, dipingendo piccole scene immaginarie da quadretto: la mamma che guardava lieta il figlio mentre si riempiva il pancino con ingordigia, il vecchio Totò, un barboncino color miele toelettato da cima a fondo, che sbavava dall’altro lato del tavolo, i santini appoggiati sopra il centrino bianco all’uncinetto che osservavano immobili la situazione. Ma forse era tutto un inganno della mia fantasia, anche perché io, Ettore e Maria, non li avevo mai conosciuti.
E intanto sedevo davanti allo scrittorio: un piccolo tavolo color noce che mio padre mi aveva affidato con tanto amore all’età di vent’anni, ricordandomi di onorare ogni suo minuscolo graffio. Suo nonno ci aveva messo l’anima e tredici anni di matrimonio per fabbricarlo: aveva selezionato accuratamente i pezzi di legno, li aveva levigati a uno a uno e poi li aveva montati assieme con la forza dei suoi bicipiti. Come lui aveva fatto con mio padre, dandogli in dono una tale meraviglia, così io avrei dovuto fare con mio figlio, se mai ne avessi avuto uno in tutta la mia vita. Ma allora questa tradizione bizzarra sarebbe rimasta confinata tra le mura della mia camera, per poi essere scaraventata in qualche discarica della città o piazzata con cura in un negozio di antiquariato.
Intanto il mozzicone della sigaretta mi guardava con aria di sfida dal posacenere scolorito su cui era atterrata di colpo: Ne vuoi un’altra non è vero? Su prendi mia sorella dal pacchetto, sta proprio nella tasca destra dei tuoi pantaloni di velluto. No, non avrei dovuto. Vittorio me lo aveva ripetuto mille volte e mille volte non avevo dato ascolto alla sua voce cantilenante. Che poi che gli importava di che cosa facessi io? Il suo disgraziato fratellino ormai era diventato adulto: la sua Lancia Fulvia lo attestava in modo chiaro. Certo, era un po’ sgangherata, la vernice rossa stava sbiadendo e le marce facevano fatica a ingranare, ma nulla che una capatina dal meccanico non potesse mettere a posto.
Forse un’ultima sigaretta avrebbe scacciato quest’ondata di pensieri, giusto una, niente di più. Afferrai l’accendino di metallo dalla tasca, sfilai la mia ultima Giubek della giornata dal pacchetto e le avvicinai la fiamma, ammirando con delizia il fumo che piano piano si dissipava da quel breve incontro. Sentii i polmoni riempirsi a ogni tiro di un caldo improvviso, di quelli rigeneranti, che mi accolse tra le sue braccia e mi donò pace. Aprii le palpebre richiuse e mi voltai verso la finestrella alla mia destra: i piedi delle persone che camminavano per via del Cipresso mi passarono rapidamente davanti agli occhi. D’altronde vivevo in un seminterrato e per l’affitto misero che pagavo non potevo neanche sognare di alzarmi dal letto e trovarmi di fronte ai Fori Imperiali. Ma mi andava bene così: vivere nel mezzo di Trastevere era un’esperienza tutta unica, che quel rozzo di Giovanni mi aveva invidiato dal momento in cui ci eravamo conosciuti. Certo, la tranquillità non era all’ordine del giorno, ma in fondo non mi potevo lamentare: bastava rinchiudermi nei 40 metri quadrati del mio bilocale e la vita intorno cessava per un momento di martellarmi il cervello, con tutto il suo brusio seccante.
Ora le mie dita sfioravano due, tre volte i rigonfiamenti che si erano formati sulla scrivania per tutte le gocce d’acqua che c’erano cadute. Se il mio bisnonno mi avesse potuto vedere, avrebbe bestemmiato. Anzi si sarebbe messo in fila in paradiso per parlare con nostro Signore e protestare di essersi ritrovato un nipote così tanto distratto. Probabilmente anche Lui sarebbe rimasto sconcertato e non avrebbe saputo dargli risposta.
Un debolissimo bip dell’orologio mi svegliò da quella paralisi. Le 13:15. Era ora del lavoro: la Lettera 22 di fronte a me non avrebbe riempito tutto un foglio da sola. Ci sarebbe voluta la pressione dei miei polpastrelli.
Photo Credit: Agnese Dell’Omo