La trincea

Ogni giorno il suono fastidioso della sveglia mi ricorda di dovermi preparare: indosso la divisa, sistemo gli scarponi ed imbraccio il fucile. Siamo in tempo di guerra ormai da troppo tempo e purtroppo le risorse scarseggiano: cerco di farmi bastare quel poco pane di coraggio che si sta pietrificando sulla tavola e mi accontento dell’acqua della determinazione, giusto un sorso, quello che resta…

Svogliata ed insicura afferro la maniglia della porta principale, esco dalla caserma, e tra le mille preghiere ridondanti nella testa faccio il primo passo fuori. Gelo. Anche se è primavera spira un vento da nord che fa rabbrividire. È pur vero che l’uniforme è di un tessuto leggero, ma è l’unica che abbiamo.

Il solo metodo per riscaldarsi è iniziare a correre, così si raggiunge anche più in fretta il campo di battaglia.

Le ferite di ieri sanguinano ancora, alcune sono livide, poche si sono rimarginate: se le tocco però sento un dolore pungente.

Cerco di sopportare le fitte lancinanti unite all’affanno della corsa e quando i miei occhi intorpiditi riescono a scorgere la pianura, il passo diventa una camminata svelta.

Finalmente ci sono. È un mistero però come riuscirò a riprendere le forze dopo così tanta fatica. Sono solo le prime ore della giornata e già mi sento sfiancata: il tiepido della brandina mi sta chiamando a sé.

Tuttavia tocca combattere. La guerra non può andare avanti. Se infatti si dilungasse ancora, probabilmente dovrei lottare senza una gamba, con una mano mozzata oppure con un foro di proiettile nella pancia.

E il nemico è là.

Quel bastardo.

Pensare soltanto che in un passato neanche lontano eravamo inseparabili mi indigna.

Che schifo.

Vorrei torcergli il collo, provocargli lo stesso dolore che lui ha fatto a me, quando doppiogiochista mi illudeva con le sue dolci parole, tentando in realtà di farmi fuori.

Ma deve scomparire, sì, deve essere azzerato, schiacciato come una piccola formica che si nasconde col suo passo fulmineo tra l’erba.

Povera formica, in fondo lei non c’entra niente.

Neanche la presenza dei miei commilitoni mi rassicura: non sento solidarietà… Ognuno combatte per sé, muore da solo, e i gesti o le espressioni di vicinanza sono soltanto formalità.

Un piccolo soffio di vento segna l’inizio del combattimento.

Niente spari, niente urla, solo un lieve cambiamento nell’aria.

Inizio a correre, ripeto nella mia testa che questa volta è quella buona, che lo ucciderò finalmente.

Tutto sarà finito.

Ci stiamo avvicinando, sempre di più, vedo il suo volto demoniaco. Riecheggiano nella mia testa le sue risa ed i suoi sguardi soddisfatti di quando riusciva ad infliggermi le peggiori torture.

E quanto godrebbe se adesso riuscisse ad ammazzarmi.

Manca poco. È il momento della resa dei conti.

Eccoci.

L’uno davanti all’altra.

Prendo repentinamente il fucile, sperando che lui non sia più veloce.

C’è qualcosa che non va…

L’indice non riesce a premere il grilletto, è paralizzato, quasi spaventato dalla visione di quel mostro.

Provo a difendermi a mani nude, ma le mani non si contraggono ed i piedi sono incollati al terreno umidiccio.

Ecco che sopraggiunge la tachicardia, il respiro si fa veloce, gli occhi strabuzzati e le terminazioni gelate.

E lui davanti a me.

Ride.

Bastardo.

Ride a crepapelle, appagato della mia assoluta impotenza.

Neanche un filo di voce esce dalla mia bocca secca. Vorrei urlare, vorrei coprirlo di un cumulo di offese.

Non ho difesa alcuna.

È giunta la fine.

Un ultimo sguardo al sole mattutino, e le mie palpebre si addormentano.

Una mano mi tocca la schiena, calda, stranamente familiare.

Mi scuote. Non dice una parola, ma al solo suo contatto mi dona nuovamente la vita.

Con i suoi gesti mi conforta, mi fa rialzare il viso chinato per la vergogna.

E con me imbraccia il fucile.

Mi giro e la vedo.

Non l’ho mai vista prima, ma mi sembra di conoscerla da una vita.

Riconosco il suo odore, la sua presenza, il suo respiro.

Mi guarda.

Un solo sguardo, una grande ricarica di coraggio.

Finalmente il corpo si muove nuovamente, le mani riprendono a funzionare.

Emetto un urlo. Forte, fortissimo.

Premo il grilletto.

Il corpo di quell’essere cade stramazzato a terra, senza dimenarsi.

Lo guardo. Ha ancora quel terribile sorriso: l’unica cosa che continuerà a fargli compagnia nell’oblio più totale.

Sento finalmente l’armonia nella mia anima. La tanto agognata pace dei sensi.

E non posso fare a meno di ringraziare la figura che mi ha donato forza, coraggio e speranza.

Mi volto sorridente, lei ricambia.

Le rivolgo un grazie, sentito e sincero. Lei continua a sorridere.

Allora ne pronuncio un altro. E poi un terzo. E ancora, ancora.

Sento che non basteranno mai.

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