Il ponte della Quercia

Il Ponte della Quercia è sempre popolato di sabato sera. Mentre il pub Sand Creek si riempie di giovani intraprendenti con le chiavi attaccate ai passanti dei jeans e le bocche a succhiare uno sherry al vetro, la sottostruttura del ponte ospita tutti gli altri. Anziani che vogliono percepire le ultime ebrezze, clochard con la pelle tutte croste, liceali eccitate che cercano di rollare la loro prima canna, anche qualche pantegana che rasenta i muri. È un ritrovo comune per emarginati, anime che si sono perse e che se rimanessero, perderebbero anche il loro nome.
E poi c’è Enea, una mano sulla coscia e l’altra dritta giù nel marsupio, quello vintage che aveva preso al mercatino della domenica. Ne stava sfilando una Chesterfield Blue, la seconda che abbandonava le gemelle nel pacchetto. Se l’era portata alla bocca e aveva preso il Clipper, perché sugli accendini fini e lunghi il pollice non gli scorreva. Quando la fiamma aveva incenerito il tabacco, aveva aspirato, si era guardato le sneakers tutte zozze e aveva buttato fuori. Lo ripeteva come un ossesso, una boccata dopo l’altra. Enea non fumava. Enea voleva saper fumare, come tutti gli altri. Non gli piaceva l’odore che si stampava tra le dita, né quel sapore di ciminiera che gli fuoriusciva dalla bocca. E poi quelle immagini raccapriccianti, le tracheostomie, i denti giallognoli. Ma per Enea non aveva granché importanza, perché agli altri piaceva fumare e quindi era giusto che lo facesse anche lui. La cenere gli era caduta sulla canottiera grigia e lui aveva imprecato, le mani ad avvolgersi la pancia con la giacca scamosciata, la sigaretta ancora in bocca. Che lo avesse fatto per non far notare agli altri quanto fosse incapace, o per ripararsi dal freddo del Maestrale, non ne era certo neanche lui.
Il vento di ottobre gli solleticava le ascelle pelose, sempre troppo pelose. Intanto il rasoio in bagno piangeva le ultime gocce rimaste, quelle che scolavano dalla doccia della sera prima. Ma lui non lo poteva sapere: a casa non era tornato e anche Agnese si era impensierita. Lei che stava sempre rinchiusa nella sua camera tutta gingilli rosa e nastri a fiocco, aveva notato che qualcosa era cambiato. Il cestino delle posate era ancora pieno, nessun rumore d’acciaio, tutto troppo in silenzio. Enea se ne era scappato, pensò, ché non era proprio da lui lasciare lì quelle posate, senza riporle nel cassetto. Ma lui neanche ci aveva pensato a lei: Agnese dagli occhi languidi e dalla pelle così bianca, la sua prima coinquilina, il suo primo possibile amore. Si erano conosciuti l’anno precedente, quando Enea aveva salutato la casa dei suoi genitori e li aveva lasciati a frantumarsi il cuore. La distanza si era concretizzata prima di quanto avessero previsto e con lei anche la paura che non si ricucisse più. Enea se ne era andato, e con lui l’unica ragione per loro per restare ancora insieme, per accantonare i fastidi di entrambi. Ora non c’era più motivo di fingere i sorrisi alla mattina e quel bacio così artefatto che i suoi genitori si scambiavano coprendosi con il giornale, che forse un vero bacio non era proprio. Enea aveva preso in affitto una camera stretta, lunga come le cabine delle navi, in cui a stento riesci a camminare di lato. Era una camera sporca, le macchie di caffè sul muro alla Pollock, gli acari della polvere che si erano radunati intorno alla ciabatta sul fondo del comodino. Ci sarà stata qualche festa di compleanno, aveva pensato Enea. Poi li aveva spazzati via.
I pochi spicci che gli servivano per l’affitto li aveva messi da parte tra regali di comunioni e cresime, pratiche di assicurazioni presso l’ufficio dello zio e un’estate a fare il cameriere in riviera romagnola. Quelli per la spesa e i detersivi della casa se li sarebbe procurati con le ripetizioni di matematica. Ma sperava sempre di ridurre il costo al minimo, ché tanto lui si accontentava anche di due panini al giorno, salame e formaggio.
Enea non comprendeva il motivo di quel trasferimento così inatteso, di quello strappo rapido. Non se lo era mai detto e mai ne aveva parlato agli altri. E chi glielo domandava lo liquidava con un: “Sai, non si respirava più dai miei, con tutti quei trattamenti in giardino per le zanzare”. Lo faceva anche d’inverno, quando in giardino non c’era proprio nessuno. Quando aveva ricevuto le chiavi della nuova casa, sperava che qualcosa sarebbe cambiato. Che le mele nel portafrutta sarebbero divenute vermiglie, la pelle meno secca, il cuore un po’ più leggero. Una volta aveva letto su un libro di self-help che non si può guarire nello stesso posto in cui ci si è ammalati. Ma Enea non conosceva il suo malanno, non pensava neanche che esistesse. E da quando si era trasferito la mente gli si era fatta sempre più intricata, lo sguardo aveva perso profondità, il fumo era aumentato. Tutto il contrario di quello che si era promesso, di quelle speranze futili che muoiono ancora prima che il pensiero le elabori.
“Scusi signore, per caso ha un filtro?”, gli aveva chiesto una delle liceali con la cartina in mano. Capelli mori a scendere giù fino al seno, leggings di pelle e galosce, un neo insolito sulla guancia destra. Enea aveva scosso la testa ed era tornato a guardare di fronte a sé. Intanto continuava a fumare, perché l’aria di quella sera era ancora troppo pulita.

Photo Credit: Agnese Dell’Omo.

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