Te ne sei andato di soppiatto e non ti sei degnato neanche di cancellare le orme che avevi lasciato sul tappeto. Le ho potute vedere da vicino, quando la pallina di plastica colorata ci è rimbalzata sopra e io mi sono chinata per prenderla.
Te ne sei andato, via dalla tua casa e dalla mia mente. A volte riappari, ma il tuo pensiero si è ormai fatto indifferente. Non si può cancellare, ma cerco di zittirlo, perché se parlasse paralizzerebbe tutto e non riuscirei ad affrontarlo.
Te ne sei andato e mi hai lasciata piccola, ancor prima di vedermi crescere. Non conosci le notti che ho passato a casa di Sofia, né i crucci che mi facevo a scuola dentro l’aula di arte. Era sempre deserta e mi facevano compagnia le tele di Natale decorate con ovatta e glitter verdi, mentre sul muro erano fossilizzati resti di intonaco colorato su cui si erano stampate le mani morbide dei bambini.
Te ne sei andato e ti sei fiondato sul vagone di un treno in corsa. Hai ansimato mentre riponevi la valigia al tuo fianco e la donna avvenente che avevi di fronte ti offriva quel suo sguardo languido. Nell’armadio del garage ho conservato lo spazio vuoto lasciato dalla sagoma della tua valigia, anche se so che non la riporrai più. L’argentino che ci frusciava la coda si sarà sentito solo tra quelle mura di legno.
Te ne sei andato e hai confidato nel potere delle chiamate. Ma le facevi sempre di sera, mentre io volevo soltanto leggere. Così sbuffavo e sopportavo per due minuti tutti quei tuoi silenzi impacciati, che detestavo e continuo a detestare.
Te ne sei andato e mi hai fatto credere colpevole della tua fuga. Hai imitato il volo dei tordi, che si inseguono in un girotondo e planano verso l’azzurro.
Te ne sei andato e io ancora ti sto aspettando, perché la tua assenza è un dolore lancinante che mi perfora lo stomaco. E so che non c’è modo, non c’è cura, non c’è garza che possa rimediare a quello che non hai fatto. Io aspetto solo che tu faccia, ma forse aspetto invano.